Tutti noi, ogni giorno, due o tre volte al giorno, compiamo il gesto di alimentarci: assumiamo cioè le calorie necessarie al nostro organismo per svolgere le sue funzioni vitali. Ma ciascuno di noi sa che questa frase coglie solo una piccolissima parte del complesso gesto del nutrirsi; se ne esaurisse il senso potremmo mangiare pasticche contenenti nutrienti e calorie sufficienti al nostro reale fabbisogno. Eppure al solo pensiero tutti indistintamente penseremmo: che tristezza!
Il gesto dell'alimentarsi e del nutrirsi infatti contiene una serie infinita di significati che rendono questa esperienza così complessa e ricca, come lo sono le relazioni umane interpersonali nella quale essa si inserisce.
Selezioniamo i primi nutrimenti utili alla nostra crescita attraverso la placenta quando, ancora immersi nel liquido amniotico, lasciamo passare alcune sostanze e creiamo barriere per altre molecole. Non possiamo fermare tutte le sostanze nocive, sappiamo come il cortisolo prodotto dallo stress passi la barriera della placenta così come l'alcool e alcune droghe.
Alla nascita il nostro primo atto di alimentazione è dato dal contatto col seno della madre; questa può trovarsi nelle condizioni giuste per aprirsi e donarsi o sentirsi impaurita, contratta, poco predisposta a dare il seno. L'evoluzione di questo rapporto col seno materno, le complesse e imponderabili vie che saranno percorse, segneranno molto profondamente il nostro rapporto col nutrirsi e col lasciarsi nutrire, a un livello che possiamo anche non percepire consciamente ma di cui il corpo mantiene memoria profonda. Sono stato gratificato in questo rapporto, mi sono sentito frustrato, arrabbiato, insoddisfatto? O mi è mancato del tutto questo contatto avendo ricevuto solo il biberon? Come mi è stato dato il biberon? In maniera amorevole, ansiosa, colpevole, fiduciosa, cruenta? È possibile che a un qualche livello queste esperienze incidano anche nella vita adulta: riesco a prendere e a soddisfarmi delle cose buone che ricevo dalla vita?
Anche lo svezzamento è pieno di significati relazionali e la modalità con cui si realizza contiene messaggi impliciti molto potenti. Acquisire ed esercitare la capacità di sputare ciò che non gradisco e assumere ciò che desidero, segna un importante passo nell'evoluzione del rapporto con me e con l'altro. Come viene accolto il comportamento selettivo del bambino? Capricci da reprimere o esigenze da rispettare? Quali rifiuti sono scelte, quali opposizioni? Qual è in senso di questa opposizione? Oppure il bambino non seleziona nulla e mangia tutto ciò che gli viene offerto? Come lo fa? Con piacere, con avidità o con rassegnata passività?
L’educazione alimentare che viene impartita poi nella seconda infanzia, le abitudini alimentari familiari e il tipo di rapporto con il cibo che hanno i genitori possono rafforzare o stemperare le tendenze alimentari stabilite nella prima infanzia. Bambini tendenzialmente inappetenti, bambini “magioni”, possono mantenere tale tendenza nell’adolescenza e nell’età adulta o cambiarla. A volte si hanno destini inversi che esitano nel comportamento esattamente contrario agli impulsi esperiti sino a un certo momento. (Ad esempio bambini paffutelli e “mangioni” possono nell’adolescenza restringere volontariamente e caparbiamente la quantità e la qualità del cibo - fino ad arrivare a sviluppare una vera e propria anoressia – viceversa bambini inappetenti possono diventare adulti incapaci di saziarsi e che necessitano di una gran quantità di cibo)
Se pensiamo alla tendenza sempre più diffusa nella società occidentale a sovra alimentarsi, ad assumere cioè una quantità di nutrienti assolutamente non necessari al proprio benessere, ci si potrebbe domandare qual è la funzione di un'alimentazione che non serve per nutrirsi?
Se proviamo a rispondere in un’ottica psicologico funzionale, o meglio energetico-funzionale , possiamo domandarci cosa si prova se proviamo a cambiare stile alimentare. Che cosa provo se inizio una dieta? Quali vissuti, quali sensazioni, quali emozioni incontro? È possibile che siano questi vissuti che voglio evitare di incontrare con il mio modo di mangiare?
È possibile che allontanandoci dai nostri vissuti più profondi, dalle sensazioni ed emozioni che hanno accompagnato il processo di apprendimento di come nutrirsi, di come stare in relazione con sé, con l'altro e col cibo, abbiamo smarrito la strada che porta a noi stessi e dunque verso le cose buone, quelle che realmente desideriamo.
Quando ci sentiamo in grado di lasciarci soddisfare dalle cose buone della nostra vita? Quanto siamo in grado di goderne? Fermarci a gustare un cibo piuttosto che volersene riempire? E se il senso di sazietà fosse solo inascoltato? E non si avesse bisogno di "tante" cose ma solo di “alcune” cose buone?
Se fosse così, mantenere il proprio peso forma, avere un'alimentazione equilibrata rappresenterebbe la conseguenza naturale della capacità di prendersi cura di sé, di ascoltare i propri bisogni, i segnali e le esigenze del proprio corpo.
Sappiamo però quanto siamo lontani da questo contatto con noi stessi e col nostro corpo, quanto la vita vada di fretta e quante abitudini alimentari siano diventate il surrogato della soddisfazione di altri bisogni.
Abbiamo creato delle autostrade alimentari che ci hanno fatto perdere il piacere della scoperta dei sentieri del nutrirsi.
Se desideriamo uscire da queste autostrade possiamo andare alla ricerca di indicazioni verso questi sentieri che, per quanto inizialmente ardui e irti, ci possono dischiudere nuovi paesaggi del gusto e del piacere, della presenza a sé e all’altro.
Eppure sappiamo che non è facile percorre questa strada. Alcune persone, nonostante se lo ripromettano, non riescono a seguire una dieta equilibrata, l’esigenza di mangiare può diventare pressante, trasformarsi in un impulso irrefrenabile, le sensazioni corporee non sono chiare, si possono confondere o mescolare con un senso di allarme, angoscia, ansia, apatia e sembrano trovare sollievo solo nell’atto dell’assumere cibo che si può colorare dei toni dell’ingurgitare, del ruminare, di continuare fino alla sensazione di pienezza estrema, dello spiluccare in continuazione, ecc.
Il cibo potrà essere realmente buono e riempitivo se da un lato ci rendiamo capaci di scegliere gli elementi nutritivi, i sapori e gli odori che ci fanno bene e dall’altro se ci rendiamo capaci di goderne appieno, ascoltando i segnali corporei più autentici e profondi che a volte non percepiamo.
Se da un lato dunque la bioterapia nutrizionale è senz’altro uno dei mezzi che può accompagnarci in questo percorso, dall’altro questa può essere accompagnata e/o preceduta da un intervento psicologico a indirizzo energetico funzionale.
Non riuscire a seguire una dieta, essere in perenne difficoltà nel rapporto col cibo, possono essere dei segnali che ci indicano l’esigenza, spesso inascoltata, di rivisitare il percorso che sembra averci portati in un vicolo cieco ma che, a guardar bene, probabilmente ci sta proprio indicando la direzione per andare nel “luogo” dove recuperare le esperienze che ci sono mancate e che hanno creato quel vuoto che illusoriamente pensiamo di colmare con il cibo.
1 Il modello energetico funzionale a cui si fa riferimento è quello post reichiano della SEOr-AIPeF, secondo cui l’essere umano è essenzialmente un campo energetico la cui definizione è data dalla pulsazione vitale di raccoglimento ed espansione propria degli esseri viventi. Tale pulsazione armonica può essere bloccata dall'individuo nel tentativo di difendersi da emozioni e sensazioni di dolore, di minaccia che inevitabilmente si incontrano. Così facendo però si rischia di bloccare, nelle contrazioni e contratture corporee, attivate istintivamente e che si può arrivare a non percepire, anche le sensazioni corporee di piacere, il calore, il contatto, la soddisfazione, il riempimento.
Per saperne di più www.seoraipef.org
24/02/2013
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